Dalla poesia alla prosa, senza parafrasi: riscrivere il testo creando nessi d’immaginazione, inventando da capo.
ATTACCAMENTO
Se uno avesse guardato più da vicino si sarebbe reso conto che stava ancora lì, rannicchiato in mezzo all’edera. E la notte gridava, quando tutti credevano che i cani erano restati fuori.
Le colonne si torcevano sempre di più, tanto tirava per liberarsi. Però nessuno andava a vedere da vicino.
Dissero pure che era l’edera che era cresciuta troppo, e si era attorcigliata attorno alle finestre, e che per questo motivo non si riusciva più ad aprirle. Le porte neppure.
Da allora stanno dentro, aspettando che l’altro riesca a liberarsi e se ne vada.
Rosalba Campra, I racconti di Malos Aires
L’INVERNO PERSISTENTE
L’inverno, sui clivi ripidi dell’Argentina meridionale, non ha risparmiato nemmeno l’ultimo anno del secolo; tanto rigido, quest’addio al Novecento, da stupire anche le genti che ne abitano i pendii meno a valle. La famiglia Varela, su tutti, disperava di non riuscire a riprendere con rapido profitto l’attività commerciale che sfama i cinque componenti, con l’apprensione di dover gestire le esigenze dei nuovi nati; i piccoli gemelli – due maschietti e una minuta signorina dalle dita lunghissime – erano il pensiero fisso dei signori Varela, vessati dalla preoccupazione per le strade ghiacciate e i negozi ormai svuotati, i rifornimenti resi impossibili dalla neve persistente.
Il ventisette dicembre, finalmente, un’improvvisa sferza di temperature più miti giunge ad ingentilire il clima e a promettere la messa in opera della cittadina sonnolenta. La speranza spinge tutti alle finestre con i nasi contro il vetro, in scossoni continui delle tende.
Non appena le tracce di neve cominciano a farsi più lievi, Paula Varela è tanto sollevata che ride a lungo, per minuti interi; il sollievo, però, si rivela poco duraturo, perché rimasugli di ghiaccio ancora afferrano testardamente strade e giardini, sigillati tra i cespugli e il corso avviluppato dell’edera. Il vento – comunque gelido – spira a ogni ora, rumoreggiando nella notte come latrati continui e disperati di cani randagi, esiliati da tutti i focolari domestici. Gli alberi, piegati dall’ingerenza ghiacciata, si flettono sotto le raffiche, al pari di altissime colonne torte, dai materiali di argilla molle invece che marmo, come se i rami possano liberarsi e fuggire via dai tronchi; nessuno, però, può contemplarne la disperazione, perché nemmeno uno si avventura fuori casa.
Per sostenere sua moglie nel sollievo fugace, Lionel Varela le racconta che non è il ghiaccio a sigillare porte e finestre, ma la risalita dell’edera incolta che si aggrappa dove può, rinsecchita dalle temperature sgradite. Una favola da poco, ma basta ad acquietare Paula che, affianco alla culla dei tre gemelli, aspetta con loro la fine dell’inverno; ascolta i sibili della tempesta e fissa l’edera con costanza: prima o poi, bisbiglia al marito, il gelo lascerà le foglie e sarà libero di andarsene. E, con lui, tutti loro.